Riflessi dell’emancipazione femminile nell’arte giapponese

Con l’apertura all’Occidente, a partire dall’era Meiji, nuovi modelli culturali, oltre che artistici, permeano la società giapponese. Il processo di modernizzazione e l’inizio dell’industrializzazione vedono la donna giapponese uscire, per la prima volta, dal suo universo privato e fare il proprio debutto nella vita pubblica, un tempo riservata agli uomini: la donna lavoratrice è anche una consumatrice, in quanto economicamente indipendente e gode di maggiori libertà, come girare per negozi, bere e fumare, frequentare locali o caffè. L’abbigliamento e le pettinature si occidentalizzano e si adeguano alle esigenze di una vita più dinamica.

Kitani Chigusa, Donna in abiti moderni nell’era Taishō, fra il 1912 e il 1926

La rappresentazione della donna nello shinhanga, nei periodi Taishō e Shōwa, è la perfetta espressione della complessità e delle contraddizioni di questa fase storica di transizione dal Giappone tradizionale a quello moderno. Essa interpreta, infatti, la tensione del mondo culturale fra i due poli opposti dell’apertura verso le nuove idee provenienti dall’Occidente e della nostalgia per il passato, romanticamente idealizzato dai collezionisti occidentali e, al tempo stesso, vagheggiato dai giapponesi come baluardo identitario. Essenziale, nel realizzare la mediazione fra elementi iconografici, tecnici e stilistici tipicamente giapponesi e occidentali, fu l’opera dell’editore Watanabe Shōzaburō. Egli rinnovò completamente il volto del bijinga di matrice ukiyoe, depurandolo da ogni forma di “volgarità” e dosando sapientemente modernità e tradizione in modo da conquistare il pubblico contemporaneo, curioso e avido di novità provenienti dall’Occidente, senza scandalizzare le frange più tradizionaliste ed, al contempo, senza incorrere nel veto della censura.

Kitani Chigusa, Bellezza femminile e fiori di ciliegio

Un esempio di tale mediazione è dato dalla rappresentazione della geisha che, da icona di un mondo equivoco e trasgressivo dall’aura esplicitamente erotica, qual era nell’ukiyoe, diventa l’immagine tranquilla e rassicurante dei valori tradizionali giapponesi: essa incarna, infatti, una femminilità dolce e pudica, nostalgica e sognante, quasi avesse nostalgia di se stessa. La connotazione sensuale è attenuata dal fatto che la geisha è posta in relazione con temi e contesti tradizionali quali le feste religiose o le stagioni. In particolare, la connessione fra l’immagine della donna e le stagioni, con il suo simbolismo legato alla natura come metafora della bellezza muliebre, tanto seducente quanto fugace ed effimera, aveva la funzione di ricondurre la rappresentazione della figura femminile ai canoni dell’autentica tradizione culturale giapponese, sia artistica che letteraria.

Yamakawa Shūhō, L’autunno, dalla serie Quattro donne, 1927

All’interno di tale quadro rasserenante, l’innovatività di queste stampe è data dal trattamento complessivo della figura umana, meno stilizzata e più naturalistica sia nelle fattezze che nella postura, con un accenno ad una plastica volumetrica ottenuta con sapienti effetti coloristici, pur nel mantenimento dell’impostazione linearistica e bidimensionale classica che fa a meno del chiaroscuro. La stessa linea di contorno non è più spessa, nera e definita come nell’ukiyoe, ma è appena accennata, bianca, talvolta sottolineata con nuove tecniche di incisione a rilievo. Infine, elementi di novità nell’iconografia sono inseriti per cenni, tramite piccoli dettagli: un’acconciatura secondo la moda occidentale, una fantasia del kimono non tradizionale. Una delle rappresentazioni forse più di rottura è stata ravvisata nella stampa shinhanga che ritrae una geisha mentre fuma una sigaretta in una pausa di relax, ma tale atteggiamento è controbilanciato dalla raffigurazione, fuori dalla finestra, di uno scenario di fuochi d’artificio tipicamente giapponese.

Ishii Hakutei, Yanagibashi, dalla serie Dodici vedute di Tōkyō, 1910 

Non bisogna poi dimenticare che nell’ukiyoe erano comuni le immagini di geishe e cortigiane che fumavano la pipa o bevevano sakè. Dunque, a mio parere, la novità di queste stampe e l’aspetto che le esponeva al rischio della censura erano dati non tanto dalla natura trasgressiva in sé di questi piaceri, quanto dalla loro versione “occidentale” (la sigaretta e il cocktail) e dallo stile di vita al quale essi erano associati e che comportava l’estensione di questi “costumi” dal mondo libertino delle case di piacere all’intera società massificata.

Itō Shinsui, dalla serie Bellezze femminili nelle varie ore del giorno, IV, 1964

Alla figura della geisha, reinterpretata quale simbolo della storia e della tradizione giapponesi, si contrappone quella della moga, espressione di una più netta e definita rottura col passato. Già il termine è un neologismo di origine occidentale derivante da modan gāru, giapponesizzazione dell’inglese modern girl. Esso fu usato per la prima volta in un articolo di un giornale femminile giapponese per definire una nuova categoria di donna, non inquadrabile nelle convenzioni sociali che fino a quel momento avevano imposto regole e limiti al comportamento, all’abbigliamento e alle scelte di vita delle giapponesi, ma libera e “anarchica”, protagonista della società, con un ruolo attivo anche nei rapporti con l’altro sesso. La moga è ritratta dalle stampe shinhanga con i capelli provocatoriamente corti, tagliati a caschetto o arricciati secondo la moda anni Venti; adorna di orologi e gioielli simbolo della sua raggiunta indipendenza economica; con abiti occidentali che lasciano scoperte spalle, braccia e gambe; intenta a fumare, sorseggiare cocktail o ballare nei dance hall. Infine, nei bijinga ukiyoe – così come negli shinhanga che rappresentano bellezze tradizionali – la donna è concepita come mero oggetto del desiderio: il suo sguardo non è mai diretto, ma, anzi, essa è spesso ritratta intenta in attività come truccarsi, pettinarsi o uscire dal bagno, creando così un’atmosfera voyeuristica nella quale lo spettatore ha la sensazione di osservare non visto. Nelle rappresentazioni della moga invece, per la prima volta, lo sguardo della protagonista è rivolto direttamente allo spettatore, creando un gioco erotico nel quale l’interesse è sollecitato o attivamente ricambiato.

Kobayakawa Kiyoshi, Tipsy, 1930

In realtà, spesso, bar, caffè e dance hall erano luoghi equivoci in cui si esercitava la prostituzione ed infatti, spesso, la moga è stata considerata come la nuova cortigiana, anche se in abiti occidentali e la sua figura, lungi dall’essere l’espressione di un’avvenuta liberazione della donna, è stata criticata, in chiave femminista, come nuova forma di riduzione di essa a oggetto sessuale.

Una considerazione a parte merita il tema del nudo. Si è avuto modo di considerare come, nei bijinga, la figura femminile, nonostante il suo richiamo sensuale, non sia quasi mai rappresentata nuda. Perfino negli shunga, le stampe erotiche, gli amanti sono parzialmente vestiti. Fanno eccezione solo le scene nelle quali le donne sono appena uscite dal bagno o impegnate in altre attività concernenti la cura del corpo: in esse, tuttavia, la parziale nudità ha natura funzionale, in quanto legata al compimento di tali attività. Un’altra eccezione è data dalla rappresentazione di figure femminili appartenenti al mito, alla tradizione e al folklore, quali le ama, le pescatrici di perle.

Con l’apertura all’arte occidentale, gli artisti giapponesi hanno modo di conoscere, per la prima volta, il nudo artistico, inteso come studio del corpo umano dal significato non necessariamente erotico. I primi ad adottare la rappresentazione del nudo sono i pittori Yōga (corrente di pittura a olio di stile occidentale contrapposta al Nihonga): ad essi la raffigurazione della nudità è consentita perché le opere pittoriche, a differenza delle stampe, hanno un pubblico ristretto. Nello shinhanga invece il nudo è vietato dalla censura perché si tratta di stampe con una diffusione di massa. Per non incorrere in tale divieto, gli autori shinhanga si attengono alla regola di rappresentare il nudo, parziale o totale, in un contesto che lo giustifichi, quello cioè legato ad attività di cura della persona e, in particolare, al bagno. Quest’ultimo, infatti, ha addirittura un significato rituale perché legato ai precetti di purezza e pulizia della religione shintoista e, dunque, costituisce uno scenario tradizionale che richiama gli antichi valori morali della società giapponese, controbilanciando la novità di stampo occidentale data dalla rappresentazione di un corpo svestito. Inoltre, la nudità non è esibita e l’atteggiamento della donna è pudico: essa è spesso rappresentata accovacciata, con un panno intorno ai fianchi e con lo sguardo languidamente assorto, non rivolto allo spettatore in modo diretto. Con una nuova tecnica basata sull’uso del baren si dà l’idea dell’aria intrisa dei vapori del bagno, rendendo l’atmosfera ancor più soffusa e sfumata.

Itō Shinsui, La fragranza di un bagno, 1930

Ruppe queste convenzioni e fu, per questo, pesantemente sanzionata dalla censura la serie intitolata “Dieci tipi di nudi femminili” di Ishikawa Toraji completata nel 1935. In essa, il corpo nudo è caratterizzato da fattezze non giapponesi – e non rispondenti ai canoni dell’iki -, ma da ampie masse trattate secondo i principi occidentali della plastica volumetrica. Esso è esibito; non è giustificato – se non in alcune scene – da attività legate al bagno; esprime una sensualità esplicita, spesso sottolineata dallo sguardo diretto rivolto verso lo spettatore. Tale carattere trasgressivo, lungi dall’essere controbilanciato dall’inserimento in un contesto tradizionale giapponese, è accentuato dalla descrizione – dai pattern fantasiosi e dai colori vividi che ricordano quelli di Matisse – di scene di interni di stile occidentale, talvolta arredati e decorati con mobili, oggetti e tessuti dai richiami Liberty. Le donne sono spesso ritratte in atteggiamenti oziosi, come sfogliare una rivista o giocare con un animale domestico, considerati contrari alla morale dell’impegno e del sacrificio propugnata dal governo dell’epoca: per la prima volta è raffigurato uno stato d’animo “moderno” e shopenhaueriano come la noia.

Riflessi dell'emancipazione femminile nell'arte giapponese

Ishikawa Toraji, Annoiata, dalla serie Dieci tipi di nudi femminili, 1935 

Immagine in copertina: Okamoto Toko, Let Out, 2014

Riferimenti: https://ds-omeka.haverford.edu/japanesemodernism/exhibits/show/the-female-image-in-shin-hanga

http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/11477/836207-1202912.pdf?sequence=2

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