Le onde nell’arte giapponese

Le onde rappresentano, nelle religioni orientali, l’eterno movimento, la trasformazione, il dinamismo – sia pur nell’unitarietà e permanenza dell’elemento costitutivo che è l’acqua – e, dunque, l’incessante dualismo fra essere e divenire. Esse si ricollegano al concetto del vuoto non come negatività e nichilismo, ma, al contrario, come potenzialità ed energia generatrice di novità: il mare, infatti, produce continuamente nuove onde. Tuttavia queste onde, pur derivando dal mare, non si separano da esso, ma ad esso ritornano senza lasciare traccia e dunque il mare, pur trasformandosi continuamente, resta sempre lo stesso.

Come le onde sono parte di un tutto unitario che è il mare, così ogni elemento della natura è parte dell’universo, da esso deriva e ad esso torna. Come non esistono onde perfette, compiute, permanenti, così in natura tutto è imperfetto, incompiuto e transitorio: la bellezza dell’universo consiste nel suo eterno divenire.

Le onde, a seconda del loro verso, rappresentano il principio femminile (yin) o maschile (yang) ed insieme raffigurano l’unitarietà del tutto con la sua potenza creatrice. Infine, con la loro continua risacca, simboleggiano lo scorrere del tempo.

Per la loro natura beneaugurale, le onde stilizzate in forma di cerchi concentrici (seigaiha) sono un motivo decorativo molto usato sulle stoffe, sulle ceramiche e sulle lacche e rappresentano ondate di buona fortuna. Anche nell’arte figurativa costituiscono un motivo ricorrente e ne è la riprova l’esistenza di un manuale di disegno (Yūzan Mori, Hamonshū, 1903) che rappresenta modelli di onde di ogni tipo: da quelle pigre e lente che lambiscono dolcemente la riva, simbolo di resilienza, ai cavalloni impetuosi, ruggenti e spumeggianti, emblema di energia vitale.

Una delle più famose rappresentazioni del nostro tema è l’opera Onde a Matsushima di Tawaraya Sōtatsu, tra i fondatori della scuola Rinpa. In essa, la tecnica del tarashikomi, impiegata per rendere il biancheggiare del mare agitato, supera la nitidezza dei contorni per ottenere effetti sfumati: si esprime così l’idea buddhista dell’impermanenza di tutte le cose che si dissolvono continuamente come la spuma del mare.

La linea non ha la funzione di marcare i contorni, ma solo di realizzare delicatissimi effetti calligrafici come le sottili venature curvilinee delle onde, le volute e i riccioli formati dalle loro creste, i minuti aghi fra le chiome dei pini: c’è dunque una tensione fra indefinitezza e cura dei dettagli. I piani del cielo, ricoperto di foglia d’oro, e quello del mare, resi in modo astratto, non appaiono distinti, ma sconfinano l’uno nell’altro. L’oceano si tinge di una sfumatura dorata che fa risaltare sia il bianco luminoso della schiuma – ottenuto grazie al pigmento minerale detto gofun -, sia i vividi verdi, ocra e azzurri delle rocce e dei pini, anch’essi resi, secondo la tecnica della scuola Rinpa, a macchie sfumate. L’impiego dell’azzurro per rendere le ombre create dalle cavità rocciose attesta un uso non realistico del colore e uno studio degli effetti di luce che anticipa di molti secoli l’impressionismo. Il punto di vista è più spiccatamente dall’alto nel paravento di sinistra, dove appare essere quello di un uccello appollaiato sul ramo del pino in primo piano. Nel paravento di destra, invece, la prospettiva è duplice: a quella panoramica sul mare e sui pini si affianca una visione frontale e dal basso delle rocce.

Tawaraya Sōtatsu, Onde a Matsushima, paravento destro di una coppia di paraventi a sei pannelli, XVII secolo, Freer Gallery of Art, The Smithsonian’s National Museum of Asian Art

Tawaraya Sōtatsu, Onde a Matsushima, paravento sinistro di una coppia di paraventi a sei pannelli, XVII secolo, Freer Gallery of Art, The Smithsonian’s National Museum of Asian Art

Effetti di luce e ombra sono anche visibili in Onde agitate di Ogata Kōrin. Le onde, che si affrontano fra loro in direzioni contrapposte (yinyang, in giapponese in’yō), sono caratterizzate, precorrendo Hokusai che ad esse si ispirò, da un linearismo inquieto, una forma ad artigli e una presenza quasi “antropomorfica”. Esse sembrano uscire all’improvviso dall’oscurità dell’oceano, resa da un alone blu profondo dai contorni indefiniti. Il chiarore della schiuma che emerge dallo sfondo scuro esprime in modo quasi teatrale l’idea della forza vitale e dell’eterno movimento dell’universo.

Ogata Kōrin, Onde agitate, paravento a due pannelli, ca. 1704-09, The Metropolitan Museum of Art

La sensibilità giapponese per la natura assume in Hokusai caratteri del tutto originali: più di qualsiasi altro, egli riesce infatti a cogliere uno spirito nella natura e ad esprimerne la vitalità. Esemplare è Sotto l’onda al largo di Kanagawa (La grande onda) che tanto ha influenzato l’arte occidentale. In essa, dall’osservazione del fenomeno fisico, l’artista trae l’elemento estetico: la linea che va dal ventre dell’onda fino alla cresta inscrive in un semicerchio il cono del monte Fuji. La perfezione geometrica della natura è essa stessa bellezza, è in sé arte.

L’incanto della forma è esaltato dallo splendore del colore: le due diverse tonalità di blu dell’onda si alternano a fasce e vanno da una sfumatura più intensa a una gradazione più brillante; per esse è stato adottato il blu di Prussia che consentiva al meglio la resa della profondità. D’altra parte, anche il tradizionale indaco è stato impiegato per creare giochi cromatici fra tonalità differenti.

Tuttavia, nella natura l’artista non vede solo la perfezione della forma e la nitidezza del colore, ma coglie uno spirito. E’ possibile parlare di visione antropomorfica: l’onda appare animata da volontà propria, sembra gareggiare in altezza con la montagna sullo sfondo, contrapponendosi alla maestosa staticità di quest’ultima con il suo potente dinamismo. La schiuma sulla cresta assume una forma a uncini che sembrano artigli pronti a ghermire le minuscole figure umane appiattite sulle barche. E’ come se tutta la scena, più che il risultato dell’osservazione realistica, fosse la rappresentazione di una visione inquieta, di un sogno agitato dell’animo dell’artista.

La forza distruttiva del mare si contrappone alla figura della montagna anche simbolicamente: se la prima è emblematica della fragilità dell’esistenza umana di fronte alla natura, la seconda rappresenta invece l’immortalità. Questi due opposti, la caducità dell’esistenza e l’eternità, pare abbiano esercitato una grande influenza sulla sensibilità dell’artista che si è esplicata nella rappresentazione di numerose vedute del monte Fuji.

L’opera può essere letta alla luce di diverse prospettive filosofiche e religiose. Il Giappone vive la condizione peculiare dell’essere un paese circondato dall’oceano. In quanto tale, sperimenta più di ogni altro la potenza della natura, a volte soverchiante rispetto all’uomo e l’ambivalenza della stessa come fonte di ricchezza, nutrimento e vita, da un lato e dispensatrice di morte, attraverso terremoti e maremoti, dall’altro. L’onda di Hokusai è un elemento naturale che può dare la vita, ma anche, in un impeto di onnipotenza, toglierla, può sostenere e insieme annientare; i pescatori, nello sforzo di strappare alla natura il cibo resistendo alla sua energia devastatrice, sono il simbolo della lotta della vita contro la morte.

Alla luce del daoismo, poi, nella massa dell’onda, in rapporto con il vuoto dello sfondo, si può ravvisare l’antitesi fra yin e yang. Tutta l’immagine è pervasa dalla tensione fra gli opposti: il mare si contrappone al vuoto, alla montagna, all’uomo. Tuttavia, questa dialettica non è rigida e schematica, ma fluida: come nel daoismo, gli opposti sono inseriti in una dinamica ciclica nella quale ognuno di essi, contenendo il potenziale dell’altro, raggiunto il proprio apice, si trasforma nel suo contrario. Nell’incavo dell’onda si può infatti scorgere un’onda più piccola in formazione che ha assunto le sembianze della montagna in lontananza; a sua volta, la montagna è coperta di una neve che richiama la schiuma del mare. Gli stessi spruzzi d’acqua che imperlano lo sfondo si confondono con lievi fiocchi di neve (infatti, la tecnica per la rappresentazione di essi è la stessa usata per i fiocchi, cioè l’incisione di buchi nella matrice). Con la mediazione del vuoto, il mare cerca di trasformarsi in montagna e la montagna nel mare. Come nel nero c’è un po’ di bianco e nel buio un po’ di luce, nell’eternità c’è qualcosa di mutevole e nella mutevolezza qualcosa di eterno.

Come si è accennato, infine, ricorre la forma circolare – richiamata dal semicerchio formato dall’onda – che Hokusai e gli altri artisti giapponesi usano spesso per simboleggiare l’illuminazione zen: in fondo, anche nell’arte occidentale la forma del cerchio è legata all’idea di perfezione. In un’altra delle Trentasei vedute del monte Fuji, l’artista inserirà quest’ultimo in una composizione molto originale, all’interno, cioè, del cerchio formato da una botte alla quale un uomo sta lavorando. Anche in questa stampa, come ne La grande onda, ricorre il rapporto fra forma triangolare e circolare, rispettivamente del Fuji e della botte: la rappresentazione della forma geometrica e la riduzione della natura alla geometria delle sue forme appaiono come uno studio sperimentale condotto da Hokusai.

Le fatiche umane, l’imperfezione, la materialità e la mortalità del corpo sono contrapposte alla bellezza maestosa e imperturbabile della natura, con accenti di compassione, solidarietà, talora ironia, ma forse perfino con una vena impercettibile, del tutto nuova per la sensibilità giapponese, di celebrazione epica.

Katsushika Hokusai, Sotto l’onda al largo di Kanagawa (La grande onda), dalla serie Trentasei vedute del monte Fuji, ca. 1830-32, The Metropolitan Museum of Art

Katsushika Hokusai, Sotto l’onda al largo di Kanagawa (La grande onda, particolare), dalla serie Trentasei vedute del monte Fuji, ca. 1830-32, The Metropolitan Museum of Art

Katsuchika Hokusai, Veduta del Fuji dalla piana della provincia di Owari, dalla serie Trentasei vedute del monte Fuji, ca. 1830-32, The Metropolitan Museum of Art

Anche nella produzione di Hiroshige troviamo stampe aventi come soggetto le onde. Quella che più di tutte richiama La grande onda, per via della raffigurazione non solo di un mare agitato, ma anche del Fuji, è l’opera Il mare al largo di Satta nella provincia di Suruga.

Dal raffronto fra le due opere, emerge come l’intento di Hiroshige, a differenza di Hokusai, sia non quello di catturare l’attenzione del pubblico con una scena dal forte effetto emotivo e drammatico, ma di rappresentare l’armonia della natura nelle sue più variegate manifestazioni. Anche un mare agitato può essere ordinato, equilibrato, proporzionato: le onde più piccole sembrano segnare il ritmo di una melodia il cui punto più alto è rappresentato dall’onda più grande, ma non per questo gigantesca, che incornicia il Fuji in una voluta elegante. Più che artigli, la spuma appare formare dei riccioli dai quali sembrano staccarsi gli uccelli in volo, creando un’immagine di grande leggiadria. All’onda che si eleva sul lato destro fanno da contrappunto le rocce a picco sul mare sul lato sinistro ed alla schiuma del mare si contrappongono le fronde dei pini, quasi come in Onde a Matsushima. Sullo sfondo, il mare è calmo e un’imbarcazione veleggia placidamente verso la riva: anche qui, un gioco di opposti fra movimento e quiete, agitazione e pace. Si potrebbe pensare ai molteplici aspetti che assume la maschera del teatro nō a seconda dell’angolazione con la quale essa è esposta alla luce: è come se la natura, con i suoi mille volti, richiamasse le variegate sfaccettature dello spirito umano.

Ed in effetti nessun elemento più del mare è idoneo a rappresentare la variabilità, la volubilità, la mutevolezza. Nell’opera I gorghi di Naruto nella provincia di Awa, Hiroshige coglie un altro aspetto del mare: quello creato dalle correnti opposte che si avviluppano in vortici e appaiono voler inghiottire qualsiasi cosa. Il vortice in primo piano forma una superficie inclinata che taglia l’immagine obliquamente, catalizzando lo sguardo dell’osservatore come a volerlo “risucchiare”. Esso incute timore come l’onda impetuosa che si abbatte sugli scogli sul lato sinistro, ma, mentre l’onda è una manifestazione di energia e di vitalità della natura, di estroflessione, di slancio, i gorghi rappresentano un volto ripiegato su se stesso del mare, quasi di collera cupa, di rimuginare introverso.

In entrambe queste opere ritroviamo la tecnica del close-up, cioè dell’oggetto in primo piano (l’onda, i gorghi) che sembra catturato da un obiettivo. Con tecnica cinematografica, l’autore, nel porre in rapporto tale oggetto con lo sfondo, dà il senso di una distanza che non è geometricamente misurabile, ma indefinita.

L’inquadratura è tale da non rappresentare l’oggetto nella sua interezza, ma da “tagliarne fuori” alcune parti che quindi l’osservatore deve ricreare con l’occhio della mente. L’artista, nel realizzare questo tipo di composizione, appare essersi ispirato al principio estetico giapponese del kire, il taglio. In esso si esprime l’idea buddhista dell’essere “tagliati fuori” dalla vita mondana attraverso la rinunzia al superfluo. Così, il taglio dell’immagine in primo piano in Hiroshige appare funzionale ad esprimere l’essenza dell’oggetto, creando altresì una pausa di riflessione, una sospensione emotiva.

Utagawa Hiroshige, Il mare al largo di Satta nella provincia di Suruga, dalla serie Trentasei vedute del monte Fuji, 1858, Art Institute of Chicago

Utagawa Hiroshige, I gorghi di Naruto nella provincia di Awa, dalla serie Vedute di luoghi famosi in più di sessanta province, ca. 1853, The Metropolitan Museum of Art