Bellezza femminile e ukiyo-e

La centralità che l’ukiyo-e attribuisce alla figura umana e, in particolare, a quella femminile non ha precedenti nell’arte giapponese la quale, fino a quel momento, sia nello Yamato-e che nell’ambito delle scuole tradizionali Rinpa e Kanō, aveva avuto per soggetti essenzialmente la natura (piante, animali) e il paesaggio. L’amore per la bellezza e il senso del poetico, indissolubilmente legati, nella sensibilità giapponese, all’idea del mono-no-aware – cioè dello struggimento per ciò che, come, appunto, la bellezza, è transitorio e fugace – passano dall’avere per oggetto la delicatezza dei fiori o la freschezza di un paesaggio primaverile al focalizzarsi sull’incanto e la poesia della femminilità. Si contempla la donna con la stessa estatica ammirazione con la quale si contemplano la luna o i fiori di ciliegio. Come nella rappresentazione della natura c’era un senso di sottile malinconia ed al contempo un’esaltazione della bellezza, quest’ultima resa ancor più preziosa dal fatto di essere il frutto impermanente di una stagione, di qualche giorno o di un istante, così nella contemplazione della figura femminile c’è la consapevolezza, che genera vera e propria commozione, della natura fugace della giovinezza e della bellezza. Per questo motivo la concezione della bellezza che è sottesa ai bijinga (ritratti di belle donne), genere non a caso rappresentativo dell’ukiyo-e, nonostante i soggetti rappresentati siano di solito donne dei quartieri di piacere, ha in sé qualcosa di “sacro”.

In tutte le culture l’idea della bellezza è legata a dei canoni estetici che variano nel tempo. Un canone di bellezza che emerge dall’ukiyo-e è la pelle chiara, anzi, “bianca come neve”, come si legge in alcuni testi letterari dell’epoca. Esso trae origine dal periodo Heian (794-1185) e dalla concezione aristocratica di una bellezza femminile non sfiorata dai raggi del sole. Il cosmetico usato dalle donne per ottenere un incarnato bianco-rosato conferiva al loro volto l’aspetto di una maschera, quasi che l’arte della seduzione consistesse nel celare piuttosto che nello svelare il viso: dunque ad una bellezza naturale era preferita una grazia sofisticata che fosse, in maniera evidente, il frutto dell’arte più che della natura stessa. Ed anzi, l’atto stesso del truccarsi era considerato seducente: al contrario che nell’Ars amatoria di Ovidio, nella quale l’autore suggerisce alle donne di non mostrare i loro trucchi, fra le scene più inebrianti dell’ukiyo-e ci sono proprio rappresentazioni di donne che si truccano.

Kitagawa Utamaro, Bellezza che si incipria il collo, c. 1790
Kitagawa Utamaro, Bellezza che si incipria il collo, c. 1790

Le sopracciglia, che le donne sposate eliminavano, sono sempre presenti nell’ukiyo-e come simbolo di giovinezza: anche nella forma di queste ultime, in seguito all’assimilazione di canoni di bellezza di origine cinese, si passa dalla preferenza per sopracciglia più spesse a quella per sopracciglia più sottili e arcuate, come “foglie di salice”. Il canone di bellezza per gli occhi li concepisce preferibilmente dalla forma stretta e allungata verso l’alto, tanto che si raccomandava alle donne di guardare verso il basso piuttosto che dritto davanti a sé. Gli sguardi dell’ukiyo-e non sono mai diretti, il che conferisce alla donna un fascino di sfuggente mistero. Il naso è apprezzato se dritto e la bocca è preferita piccola, a ricordare, anche nel colore, una “ciliegia” o una “foglia d’acero autunnale”: per questo motivo essa non è mai truccata interamente. Era costume diffuso quello di annerire i denti: in alcune stampe è forte, quasi stridente il contrasto di colore fra essi e le labbra.

Kitagawa Utamaro, Okita, serie "Trucco di sette beltà allo specchio", 1792-1793, Honolulu Academy of Art
Kitagawa Utamaro, Okita, serie “Trucco di sette beltà allo specchio”, 1792-1793, Honolulu Academy of Art

La forma del viso e del corpo, inizialmente preferita tondeggiante a segnalare una condizione di prosperità, tende in seguito ad assottigliarsi, in conformità sia con i canoni di eleganza cinesi che concepiscono la donna flessuosa “come un salice”, sia con l’ideale estetico dell’iki. La forma allungata e snella è apprezzata anche negli arti e nelle mani, perfino nelle unghie: le mani sono spesso rappresentate nell’ukiyo-e nell’atto di sistemare un’acconciatura o suonare uno strumento o dispiegare una lettera, al fine di esaltarne l’eleganza e la delicatezza.

Passando dai canoni estetici alla rappresentazione della femminilità nell’opera d’arte, un tratto distintivo dell’ukiyo-e consiste nella tendenza a non rappresentare il nudo. Una ragione potrebbe risiedere nella concezione di bellezza cortese ereditata dal periodo Heian che vedeva il vestito come strumento di seduzione e intendeva la bellezza in senso complessivo, come allure di raffinatezza e di eleganza. Le cortigiane e le geishe erano infatti delle icone di stile e il loro abbigliamento era estremamente elaborato, costoso e ricercato.

Inoltre, l’ukiyo-e preferisce una nudità solo accennata ad una esibita: la zona più sensuale del corpo femminile è considerata la nuca, unica parte lasciata scoperta dall’orlo del kimono; intravedere un piede nudo o parte di una gamba era estremamente seducente per il contrasto con il resto della figura che era completamente vestita ed è per questo che le geishe portavano sandali senza calze anche d’inverno. Era infine considerato molto attraente indovinare una sottoveste sotto i lembi del kimono o intuire la recente nudità in una figura femminile appena uscita dal bagno.

Utagawa Kunisada, Ragazza in un paesaggio innevato, ca. 1830-34, National Museums Scotland
Utagawa Kunisada, Ragazza in un paesaggio innevato, ca. 1830-34, National Museums Scotland

Le scene preferite dall’ukiyo-e sono quelle dell’intimità: gli artisti amano entrare nella vita segreta delle donne, rappresentarle in momenti in cui non pensano di essere guardate, mentre si truccano, si pettinano, leggono lettere d’amore, cogliendone le espressioni caratteristiche, le reazioni spontanee.

Kitagawa Utamaro, Donna che pettina, c. 1797-98, Art Gallery of South Australia
Kitagawa Utamaro, Donna che pettina, c. 1797-98, Art Gallery of South Australia

E’ il mistero della femminilità quello che essi aspirano a cogliere, l’anima stessa della donna che si svela in quegli attimi carpiti come lo strato più nascosto del kimono.

Copyright © arteingiappone – Riproduzione riservata