Il Giapponismo e la mostra di Rovigo

Parafrasando ciò che è stato detto dei rapporti fra Roma antica e la Grecia, può affermarsi che il Giapponismo è la storia di come l’Occidente, avendo cercato di conquistare il Giappone, abbia finito con l’esserne conquistato. Anche se si è trattato di un fenomeno ottocentesco, si può affermare che esso non si sia mai veramente concluso. Come moda si è esaurito intorno alla prima guerra mondiale, ma poi si sono avute nuove ondate successive di Japonisme e quest’ultimo, da semplice curiosità etnica o superficiale fascinazione per l’esotico, si è trasformato in un interesse sempre più profondo per lo spirito orientale. I valori estetici di fondo dell’arte giapponese, che di tale spirito sono l’espressione, permearono l’arte occidentale, trasformandola per sempre.

Il termine Giapponismo è stato coniato nel 1873 dal critico Philippe Burty per designare la moda ottocentesca legata al collezionismo, da parte della borghesia internazionale, di ceramiche, lacche, kimono, ventagli, stampe e altri oggetti provenienti dal Giappone e l’influenza da essi esercitata sugli artisti. La moda culturale della japonaiserie si poneva sul solco dell’interesse settecentesco per le “cineserie” e si inseriva in una più ampia corrente di orientalismo originata dalle scoperte archeologiche di quegli anni in Egitto e Medio Oriente; essa era esplosa in seguito alla rottura, da parte del Giappone, di un secolare isolamento (sakoku) nei confronti dell’Occidente e alla forzata apertura ai commerci con quest’ultimo a partire dal 1854, anno della Convenzione di Kanagawa tra il Giappone e gli Stati Uniti d’America. Nel centro di Parigi sorsero nuovi negozi di oggetti cinesi e giapponesi, come La Porte Chinoise di Madame Desoye, che diventarono cenacolo di artisti, scrittori e intellettuali come Manet, Baudelaire e i fratelli de Goncourt, questi ultimi fra i promotori del Giapponismo in Francia; il mercante d’arte franco-tedesco Sigfried (Samuel) Bing fondò la rivista Le Japon Artistique (1888-1891), fonte di ispirazione per molti autori e mezzo di circolazione delle nuove idee; nel corso delle Esposizioni universali, fin dal 1862, i padiglioni giapponesi esibirono vasi, paraventi, arredi da giardino e altri manufatti provenienti dall’intrigante ed esotico arcipelago; alcuni artisti si recarono lì personalmente a insegnare e studiare.

Claude Monet, La Japonaise (Camille Monet in Japanese Costume), 1876 (non in mostra)

Molti pittori, come van Gogh e Monet, collezionarono essi stessi stampe ukiyoe, soprattutto di Hokusai, Hiroshige e Utamaro, ma anche di Torii Kiyonaga, Kesai Eisen e altri. Si narra che molte di esse siano giunte nelle mani dei collezionisti perché usate per avvolgere le porcellane: l’aneddoto è dell’incisore Félix Bracquemond che scoprì in questo modo i Manga di Hokusai. In seguito all’occidentalizzazione, nel periodo Meiji, le tradizionali stampe su matrici di legno avevano conosciuto un rapido declino in Giappone ed erano ormai considerate quasi dozzinali.

Proprio all’atmosfera emozionante di quei primi tempi di scoperta si ispira la mostra: “Giapponismo. Venti d’Oriente nell’arte europea (1860 – 1915)” che si sta svolgendo a Rovigo, presso Palazzo Roverella, fino al 26 gennaio 2020. Curata da Francesco Parisi, essa si articola in quattro sezioni corrispondenti alle quattro Esposizioni universali e confronta opere primarie e derivate, ossia le opere originali giapponesi e quelle occidentali che ad esse si sono ispirate. Per la prima volta, si evidenzia la portata decisiva e la diffusione capillare del fenomeno del Giapponismo in tutti i Paesi d’Europa, dalla Francia di Paul Gauguin, Henri de Toulouse Lautrec, Pierre Bonnard, Paul Ranson ed Émile Gallé al Belgio di James Ensor, dall’Olanda di Vincent van Gogh all’Austria di Gustav Klimt e Koloman Moser, alla Boemia di Alphonse Mucha, all’Inghilterra di Albert Moore, fino all’Italia, quest’ultima rappresentata, tra gli altri, da Giuseppe De Nittis, Galileo Chini, Plinio Nomellini, Giacomo Balla, Antonio Mancini, Antonio Fontanesi e Francesco Paolo Michetti. La mostra testimonia dunque, grazie all’ampiezza della sua collezione di opere, l’influenza ad ampio raggio dell’arte giapponese su Impressionisti, Postimpressionisti, Nabis, Secessione viennese, Art Nouveau, Arts & Crafts, Liberty e praticamente tutte le correnti che hanno posto l’alfabeto del linguaggio della contemporaneità.

Dunque, si può dire che oggi, nel mondo dell’arte, tutto sia Giappone e sembrerebbe che la consapevolezza di questo aumenti con l’aumentare della prospettiva storiografica, contribuendo a superare la nostra ottica eurocentrica: ne è stato una dimostrazione, oltre alla mostra di Rovigo, anche il film-documentario Van Gogh e il Giappone, diretto da David Bickerstaff e recentemente proiettato nelle sale cinematografiche. Da esso si evince, forse per la prima volta, attraverso la ricostruzione delle lettere dell’artista, come l’attrazione per l’arte giapponese sia stata non un fatto episodico o una curiosità momentanea, ma un elemento decisivo, quasi programmatico, il filo conduttore dell’intera opera di van Gogh.

Semplicità, essenzialità, astrazione, stilizzazione, dinamismo della linea, brillantezza del colore esaltata dalle campiture piatte e dai contorni marcati, vuoto degli sfondi, audacia degli scorci e dei punti di vista, asimmetria, prospettiva non geometrica, attenzione alla natura, ai fenomeni atmosferici e alla figura umana, ma con una resa volutamente non realistica e non mimetica, decorativismo. In architettura, fusione fra interni ed esterni, fra abitazione e natura. Di tale portata è stato il ciclone che ha travolto e rinnovato l’arte occidentale di stampo realistico superandone i barocchismi e gli eccessi nel tentativo di imitazione della realtà e riportandola alla natura nella sua genuinità e freschezza.

Pierre Bonnard, Marine, 1910

Van Gogh, nel riprendere i paesaggi della Provenza, si ispirava alla spiritualità della rappresentazione della natura nell’arte giapponese; Monet era rapito dalla poesia nella raffigurazione della neve; Degas, per ritrarre le sue ballerine, si ispirava alle originali inquadrature dell’ukiyoe ed alle sue nuove posture, così diverse da quelle canoniche dell’arte accademica; Toulouse Lautrec traeva ispirazione da quell’arte bidimensionale, asimmetrica e sintetica per le sofisticate silouhettes dei suoi manifesti di grafica; la Secessione viennese, l’Art Nouveau e il Liberty si fondavano sul ricercato linearismo, sul decorativismo e sulla stilizzata essenzialità e purezza dell’arte giapponese.

L’eleganza e la forza spirituale della semplicità e l’originalità di una rappresentazione soggettiva del mondo, reso non così com’è, ma come percepito e filtrato dall’animo dell’artista e trasposto sulla carta come proiezione di un processo interiore di contemplazione e meditazione sulla natura, sono stati i caratteri dell’arte giapponese che più hanno colpito gli autori occidentali. Sulla spinta anche di queste sollecitazioni, l’arte contemporanea occidentale è poi giunta alla rottura definitiva della forma, all’astrazione radicale e al totale superamento del naturalismo. Quella giapponese invece, almeno la corrente Nihonga, ha mantenuto un equilibrio fra forma e astrazione perché la sua venerazione nei confronti della natura non le permette di distruggerla.

Come si è accennato, l’influenza del Giappone sulla cultura occidentale ha conosciuto, nel tempo, diversi gradi di approfondimento e stadi progressivi di permeazione della società.

In un primo momento, come si è già considerato, Japonisme ha espresso il fascino esercitato dalle stampe e dagli oggetti d’arte giapponesi; in una seconda fase, con le guerre mondiali, la conoscenza della cultura giapponese ha condotto all’assimilazione delle filosofie orientali; è stato poi considerato Japonisme l’ingresso del Giappone nell’immaginario popolare e nella vita quotidiana con il successo riscosso da manga e anime. Oggi si può parlare di Japonisme per intendere complessivamente la curiosità nei confronti della cultura giapponese, quest’ultima associata dagli occidentali ad una superiore saggezza nel modo di intendere la vita. La pervasività e la portata di detto interesse culturale è tale da indurre un autore (Iwabuchi, 2002) a sostenere che la nuova globalizzazione si stia indirizzando verso l’Estremo Oriente.

In effetti, come ha sottolineato il critico Okakura Kakuzō, il Giappone costituisce un po’ il distillato della cultura e del pensiero dell’intera Asia, perché in esso sono confluite, dall’India e dalla Cina, tutte le principali religioni e filosofie orientali e mentre la civiltà cinese è stata travolta da invasioni successive che l’hanno distrutta, quella giapponese, per la particolare storia di quest’arcipelago che non ha mai subito invasioni, è stata preservata nel tempo e ha tramandato la cultura asiatica.

Paul Gauguin, Fête Gloanec, 1888

Fête Gloanec di Gauguin è japoniste nella stesura uniforme di colore a campitura che fa risaltare la superficie del tavolino e gli oggetti disposti su di essa, nei contorni scuri, nei colori a contrasto, nel taglio della composizione e nel punto di vista dall’alto. L’autore ha fuso tali caratteristiche, insolite nell’arte occidentale, con il tema classico della natura morta ritratta con cenni di chiaroscuro, assente invece nell’arte giapponese. L’abbondanza di cibo è forse sottolineata provocatoriamente dall’autore con la denominazione di “festa”.

Giuseppe De Nittis, La lezione di pattinaggio, 1875 ca.

E’ japonisant, nella Lezione di pattinaggio di De Nittis, lo sfondo vuoto, o meglio l’identificazione fra neve e vuoto. Le figure ammantate di nero a contrasto non sono ritratte centralmente, ma entrano nella scena da sinistra scivolando inclinate – la diagonale è japoniste – sul piano ghiacciato ed il pittore ne carpisce il movimento. In lontananza, una densa caligine avvolge figure che sembrano fatte di fumo.

Henri de Toulouse Lautrec, Reine de joie, 1892

Reine de joie di Toulouse Lautrec è tutto giocato sulle diagonali: la linea del tavolo, quella della sedia, quella del braccio della donna. La visione è dall’alto e di scorcio, l’inquadratura è di tipo fotografico, le campiture di colore disegnano dinamiche silouhettes. E’ l’inizio della grafica pubblicitaria, dei manifesti: lo si deve tutto alla novità dell’arte giapponese, così come la sensibilità dei pittori occidentali l’ha saputa cogliere.

Immagine di copertina: Vincent van Gogh, Ramo di mandorlo fiorito, 1890 (non in mostra)

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