Le cascate nell’arte giapponese

La cultura giapponese attribuisce alle cascate un rilevante valore simbolico e religioso. Esse sono legate alla simbologia del drago che, in Oriente, è più connesso all’acqua che al fuoco: lo stesso ideogramma che traduce la parola “cascata” è composto da due parti, l’una corrispondente al termine “acqua” e l’altra che coincide con “drago”. Dunque, il concetto di “cascata” è espresso simbolicamente come “drago d’acqua”: ed infatti l’immagine della cascata ricorda quella di un drago che si tuffa da un pendio, mentre la sua forza trascinante e il suo ruggito dirompente richiamano l’impeto di un drago furibondo.

A sua volta, il drago, che, nell’iconografia tradizionale, sputa acqua ed è ricoperto di squame come un pesce, è il frutto della metamorfosi di una carpa: secondo una leggenda cinese, quest’ultima sarebbe riuscita, superando mille ostacoli, a risalire le cascate del fiume Giallo in prossimità della Porta del Drago. L’audacia di tale impresa e la tenacia nell’affrontare le avversità sarebbero state premiate dagli dei con la trasformazione del pesce in un drago immortale.

Nello shintoismo non c’è distinzione fra creatore e creato e dunque i kami, le divinità, fanno parte della natura: perciò le cascate, come gli alberi, le rocce, le montagne e tutti quegli elementi naturali che evocano un senso di bellezza e di potenza, sono venerate come kami e la loro sacralità è segnalata dalla presenza di una corda (shimenawa) che ne delimita l’accesso. L’altezza e imponenza delle cascate, la forza e l’energia della massa d’acqua, i giochi di luce e colore, la nebbia creata dagli spruzzi, i gorghi e i mulinelli, il fragore rombante come tuono destano stupore e ammirazione e, al tempo stesso, incutono soggezione, infondendo nell’uomo il senso della sottomissione al divino e al sacro.

Poiché inoltre lo shintoismo è fondato su un concetto di purezza come contrapposta all’impurità e al peccato, le cascate hanno, in questa religione, una funzione purificatrice. Pregare sotto una cascata (takigyo, parte dei rituali detti misogi harae) è una pratica di meditazione shintoista-buddhista che consiste nello svegliarsi presto, digiunare, indossare una veste bianca come quella usata per avvolgere i defunti (shiroshozoku) e fare delle abluzioni sotto il flusso gelido di una cascata cantando dei mantra. Il pellegrino entra così in intima unione con la natura, mentre l’acqua lo purifica dalle energie negative, con un effetto rinvigorente e rigenerante. L’accettazione delle difficoltà di tale pratica e del dolore provocato dalla forza e dalla temperatura dell’acqua conduce alla serena accettazione delle avversità della vita, compresa la morte.

Un’altra pratica sportivo-spirituale consiste nello scalare le cascate (sawanobori), a ricordo di quando non esistevano collegamenti fra villaggi e l’unico modo per spostarsi fra le montagne era quello di guadare fiumi e arrampicarsi su cascate. Tali viaggi avevano anche un valore di cammino spirituale, di pellegrinaggio. Ancora oggi, la “regola” ascetica dei monaci Yamabushi consiste nel vivere sulle montagne camminando a piedi nudi, attraversando fiumi e immergendosi nelle cascate anche d’inverno. La cascata più alta del Giappone, Nachi no Taki, si trova presso un tempio meta dell’antico itinerario di pellegrinaggio detto “Kumano Kodo”, tutelato dall’UNESCO.

Le cascate infine, con il loro flusso d’acqua perenne e maestoso, con l’eterno movimento in una forma che però, nonostante il continuo cambiamento, resta immutabile, esprimono il dualismo fra permanenza e trasformazione. Esse sono l’immagine del flusso della coscienza divina universale e della forza vitale che si evolve all’infinito (kannagara). Immergersi in esse assimila al flusso dell’acqua che trascende le divisioni e i confini; tale rituale attribuisce la consapevolezza di essere parte di qualcosa di più grande di noi stessi, di appartenere all’ordine naturale e alla vastità dell’universo, di attingere all’eterna corrente della vita. Se nella cultura occidentale di stampo umanistico l’uomo è il centro dell’universo, in quella orientale egli è immerso nella natura come in un tutto unitario nel quale la sua individualità tende a fondersi, perdendosi come acqua in un fiume che scorre.

Katsushika Hokusai, Cascata Kirifuri sul monte Kurokami nella provincia Shimotsuke (c. 1832-1833)

Nella serie Cascate famose in varie province, Hokusai rende per la prima volta in forma grafica il soggetto tradizionale delle cascate. Egli cattura con il potente dinamismo della sua linea la forma particolare di ogni cascata, riuscendo così a rendere, come in un ritratto, l’individualità di ciascuna. A volte esse appaiono contorte come radici di un albero, altre lisce e sottili come capelli lunghi e sciolti; a volte biancheggiano per l’effetto della schiuma, altre alternano nastri di bianco e di azzurro. Nella scelta del colore, l’autore abbonda con il blu di Prussia, pigmento sintetico allora recentemente importato dall’Europa e ad esso associa, a contrasto, gialli, marroni e verdi. Le forme fantastiche fanno pensare ad immagini di sogno, ad uno spazio interiore e senza tempo, più che a paesaggi reali. La natura appare come preminente rispetto all’uomo; e tuttavia all’attenzione spirituale e animistica per l’elemento naturale, l’artista coniuga sempre l’interesse per le attività umane.

Nella Cascata Kirifuri, la forza dell’elemento è resa dagli spruzzi in forma di leggiadre perle simili a quelle formate dalla Grande onda di Kanagawa. La rappresentazione della natura appare anche qui, come nell’Onda, antropomorfica, come se la cascata fosse la mano di un gigante o le mille dita di una divinità delle montagne. L’acqua si mescola alle rocce e alla vegetazione come in un tutto unitario. Lo stile è improntato ad un’evidente stilizzazione che riduce a forma pura il soggetto attraverso l’uso di un linearismo elegante paragonabile a quello del Liberty, ma più vibrante, tale da infondere negli elementi naturali quasi un principio di vita, un’anima.

L’acqua delle cascate, pur non avendo la forza distruttiva dell’onda oceanica, è dotata di una potenza maestosa anche nelle dimensioni, sottolineate dal confronto con le figure umane che appaiono minute. Il rapporto dell’uomo con la natura non è di dominio, come nella cultura occidentale, ma può essere o di mera soggezione o di contemplazione, come quello dei tre pellegrini di spalle in primo piano che guardano in alto con stupefatta ammirazione (da notare, in alto a destra, due personaggi impegnati nella pratica del sawanobori). La natura, tuttavia, è indifferente all’uomo, lo sovrasta e prosegue il suo corso immutabile.

Katsushika Hokusai, La cascata di Yoshino nella provincia di Yamato dove Yoshitsune lavò il suo cavallo (c. 1832-1833) 

L’attenzione per le attività umane, anche nella loro umile realtà quotidiana e la valorizzazione delle persone comuni si esprimono invece nella scena dei due uomini che lavano un cavallo nella Cascata di Yoshino. Ispirata alla leggenda secondo la quale il guerriero Minamoto no Yoshitsune (1159–1189), inseguito dai nemici, avrebbe lavato in quel luogo la sua cavalcatura, la raffigurazione è molto poco eroica e molto più prosaica, configurando, forse volutamente, un registro “basso” contrapposto ad uno “elevato”, aulico. La tecnica di rappresentazione della figura umana appare quella, proto-fumettistica, dei Manga. Il contingente pragmatismo delle fatiche umane fa quasi da contrappunto all’eterna maestà e spiritualità della natura.

Katsushika Hokusai, La cascata di Amida in fondo alla via di Kiso (c. 1832-1833)

Nella Cascata Amida il senso fantasmagorico della linea si compendia nel fascino misterioso ed esoterico della perfetta forma circolare disegnata dalle rocce nella parte superiore, quasi ad evocare l’occhio della divinità buddhista. Le onde formate dal fiume retrostante prima di gettarsi dalla rupe, catturate da linee nervose, guizzanti, danno luogo a un piccolo saggio di disegno astratto incastonato come una gemma nel piatto disco geometrico. Quest’ultimo è stato paragonato a una luna o a una ciotola di riso e, come l’Onda, testimonia l’interesse di Hokusai per la forma circolare, forse legato al suo significato religioso, connesso all’illuminazione, nel buddhismo zen. Tutta la composizione si gioca su un’alternanza di pieni e di vuoti, come nella spiritualità zen. E’ vuota la cavità circolare formata dalle rocce; è vuoto, come una teca oscura e inaccessibile, lo spazio nel quale le alte rocce torreggianti – che appaiono frastagliate come l’Onda – chiudono la cascata. Esso suggerisce un senso di silenzio e di distacco dal mondo interrotti solo dalla vivacità della scena di un ardito picnic sulla roccia. La massa d’acqua sgorga copiosa sulla sommità per disperdersi, più in basso, in rivoli somiglianti a fili sottilissimi che seguono le venature del legno di ciliegio di cui sono fatte le matrici. La prospettiva, infine, è duplice, a volo d’uccello nella rappresentazione della sommità della cascata e delle figure umane sulle rocce e frontale, di tipo occidentale, nella resa della parte centrale della cascata.

Utagawa Hiroshige, Cascata di Fudō a Ōji (1857)

Anche Hiroshige affronta il tema della cascata nell’opera Cascata di Fudō a Ōji appartenente alla serie Cento famose vedute di Edo. Il senso del sacro trasmesso dall’immagine è potente e promana dalla perfezione del cilindro d’acqua attratto verso terra dalla forza di gravità. La volumetria del cilindro è fortemente sottolineata dall’uso del bokashi, la sfumatura di colore dal bianco all’azzurro chiaro al blu profondo atta a conferire tridimensionalità all’immagine e frutto dell’abilità dei maestri stampatori che con essa realizzavano effetti di tipo pittorico. La forma concepita da Hiroshige è astratta: non è più una cascata, ma l’idea di una cascata.

Se si confronta quest’opera con le Cascate di Hokusai si noterà come, mentre quest’ultimo ricercava nella natura ed in particolare nella rappresentazione dell’acqua la forma fantasiosa e suggestiva, resa con un linearismo inquieto e vibrante, Hiroshige prediliga e scelga la forma perfetta, il puro volume.

Ai piedi della cascata le figure umane appaiono minute. Anche in Hiroshige tuttavia, come in Hokusai, il senso di soggezione dell’uomo rispetto alla natura è controbilanciato da una considerazione dettagliata delle attività umane: mentre due dame dalle elaborate pettinature e dagli eleganti kimono ed ombrelli osservano, un pellegrino seminudo si immerge e una donna anziana serve il tè ad un uomo seduto appena uscito dall’acqua che le tende la mano. La verticalità delle rocce è maestosa ed anche nella resa di queste ultime vi è un forte senso della plastica volumetrica. Il festone appeso ai tronchi d’albero in alto, segno della sacralità del luogo, incornicia elegantemente l’immagine e contribuisce a rendere il senso dell’altezza della cascata e della sua verticalità. Il cartiglio quadrato contenente il titolo della stampa in alto a destra è decorato con un motivo che richiama nuvole stilizzate.

L’artista contemporaneo Hiroshi Senju ha ripreso il tema classico delle cascate coniugando le tecniche tradizionali Nihonga (l’uso di carta washi e pigmenti naturali) con uno stile minimalista. Le sue cascate monumentali, ritratte a grandezza naturale e in bianco e nero, riescono a evocare il senso del dinamismo dell’acqua (vedi immagine di copertina Falling Water, 2013, http://www.hiroshisenju.com/gallery).

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