L’ukiyo-e: storia, tecnica e generi

Storia, tecnica e generi delle stampe giapponesi

storia, tecnica e generi delle stampe giapponesiNel XVII secolo il clan degli shogun Tokugawa instaurò in Giappone, dopo secoli di guerre civili, un lungo periodo di pace. In duecentocinquant’anni di accentramento del potere tale dinastia fu fautrice del superamento del precedente sistema feudale e del passaggio ad un’economia mercantile protetta da un regime autarchico (la politica di “isolamento” dall’Occidente). Tale economia determinò l’affermarsi del ruolo delle città e di un ceto borghese dal quale proveniva sia la richiesta di opere d’arte sia l’impulso creativo a produrle. Fu il periodo Edo (1603-1868), denominato così dalla capitale del Giappone che gli shogun fissarono a Edo, l’odierna Tōkyō.

In questo periodo fiorì l’ukiyo-e, la corrente artistica delle stampe su matrici di legno che tanto affascinarono gli Impressionisti e con le quali in Occidente tendiamo a identificare l’arte giapponese. La tecnica della stampa rappresentò una democratizzazione dell’opera d’arte: dalla stessa matrice potevano essere prodotti numerosi esemplari anche in quantità “industriali” e questo consentiva di ridurre notevolmente il costo delle stampe messe infine in circolazione anche a fronte di elevati costi di produzione.

I soggetti erano quelli che erano in grado di affascinare il pubblico degli abitanti delle città e cioè la vita delle città stesse con le sue feste, i suoi divertimenti, gli spettacoli, le belle donne eleganti e alla moda. La corrente ukiyo-e già nel nome appare incarnare lo spirito di un’epoca che amava annegare le sofferenze e le angosce della vita quotidiana nei piaceri del mondo, dimenticando l’insegnamento buddista che definiva quest’ultimo come un “mondo fluttuante” (ukiyo), transeunte, effimero, al quale non ci si doveva legare e dal quale bisognava fuggire.

Il procedimento di produzione di una stampa era assai complesso e coinvolgeva numerose figure professionali. In primo luogo vi era l’artista il quale, su commissione di un editore che finanziava l’intero progetto, realizzava il disegno a china e concepiva l’idea sulla colorazione finale. Tale disegno veniva sottoposto alla censura che vi apponeva un sigillo rotondo. Non solo i soggetti, ma anche il numero dei colori da utilizzare erano regolati da leggi censorie: ad esempio, in seguito alla pubblicazione di una stampa con settantadue sfumature di colore, fu emanata, nel 1842, una legge censoria che limitava il numero delle gradazioni consentite a otto. Ne è riprova la serie delle Cento vedute di Edo di Hiroshige nella quale comunque l’essenzialità del cromatismo rappresenta un aspetto positivo.

In una seconda fase il disegno perveniva all’incisore (horishi) che lo poneva a faccia in giù su una tavola di legno di ciliegio selvatico all’uopo invecchiata e preparata. La particolare venatura di questo legno a volte appariva nelle stampe conferendo loro un ulteriore effetto decorativo. La carta attorno ai contorni veniva raschiata via, le linee erano incise sulla matrice e le superfici vuote erano eliminate con un cesello. Distrutto il disegno originale, veniva infine inciso sul bordo esterno della piastra di legno un crocino di registro che indicava allo stampatore la corretta posizione nella quale doveva mettere il foglio da stampare. Dalla matrice con i contorni erano stampate delle copie a inchiostro di china nero in numero corrispondente a quello dei colori che ciascuna stampa avrebbe dovuto presentare. Successivamente si collocavano le prove di stampa su altrettante matrici di legno e se ne incideva la superficie in corrispondenza delle aree da colorare con lo stesso metodo impiegato per i contorni. Ogni matrice corrispondeva dunque ad un diverso colore.

Quindi il lavoro passava allo stampatore (surishi) che tagliava la resistente carta assorbente fatta a mano, prodotta dal gelso, nel formato desiderato. A questo punto egli realizzava i contorni, strofinando la piastra di legno con una spazzola imbevuta di china e ponendo il foglio nell’esatta posizione indicata dal crocino di registro. Con un apposito disco piatto lo stampatore faceva aderire la carta contro la matrice imprimendovi il disegno. In seguito poneva il foglio sulle matrici apprestate per imprimere i colori e procedeva allo stesso modo, partendo dalla tonalità più chiara.

I pigmenti usati, salvo il blu di Prussia che si otteneva mediante l’impiego di un procedimento chimico inventato in Europa e introdotto in Giappone dagli olandesi nel 1820, erano tutti di derivazione vegetale e minerale.

Spesso si ottenevano degli effetti visivi simili alla pittura mediante i bokashi, sfumature cromatiche che danno un effetto di tridimensionalità. Talora si impiegavano anche tecniche dal sofisticato effetto decorativo, come l’uso della polvere di mica per gli sfondi (kira-e).

In alcuni casi anche il nome dell’incisore o dello stampatore compariva sull’opera insieme alla firma dell’autore ed ai cartigli recanti i titoli della serie di appartenenza e della stampa in questione. Quest’ultimo, che compariva in alto a destra, era spesso in sè una piccola opera d’arte perché riprendeva i colori che comparivano nella stampa o riportava motivi raffinati come nubi stilizzate o fiocchi di neve.

Quanto infine ai generi dell’ukiyo-e, essi erano essenzialmente legati ai diversi soggetti che erano le belle donne (i cui ritratti erano denominati bijinga), gli attori di kabuki (yakusha-e), le scene erotiche (shunga), fiori e uccelli (kachōga), soggetti fantastici (kaidan), paesaggi (fukeiga) e vedute famose (meisho-e). Nel 1840 la riforma Tenpō rese illegali i ritratti di cortigiane e attori di kabuki e costrinse a ripiegare sul genere delle scene storiche e mitologiche.

Complessivamente, da una considerazione dei generi, emerge come la corrente ukiyo-e fosse espressione di un rinnovato interesse per l’uomo e per la rappresentazione della figura umana. Nonostante i soggetti fossero perlopiù geishe o attori di kabuki, è comunque significativa questa tendenza che produsse, con lo studio delle fisionomie e dei caratteri che da esse emergevano, le basi di quello che definiamo ritratto, come abbiamo visto a proposito di Utamaro e di Sharaku. Fu solo con Hokusai e Hiroshige che l’attenzione per la figura umana fu abbandonata in favore di un rinnovato interesse per il paesaggio e per la natura, vista come sacra e predominante rispetto all’uomo. Vi è dunque nell’ukiyo-e un’oscillazione bipolare fra rappresentazione dell’uomo e della natura.

Il critico d’arte Okakura Kakuzō ha visto nel principio estetico che consiste nell’evitare le ripetizioni, oltre che in una filosofia non antropocentrica, la fonte del superamento della riproduzione della figura umana nell’arte giapponese: “Questo spiega come i paesaggi, gli uccelli e i fiori divennero i soggetti preferiti della pittura giapponese, a scapito della figura umana che è già presente nella persona di chi osserva. Noi uomini ci mettiamo fin troppo in evidenza e, nonostante tutta la vanità dell’essere umano, prendere sempre in esame noi stessi diventa con il trascorrere del tempo qualcosa di estremamente monotono” (Okakura Kakuzō, Il libro del tè, Elliot (anno originario di pubblicazione 1906), ultima edizione in traduzione italiana 2014, capitolo IV).

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