Tra modernità e tradizione: Nihonga

Yoshitaka Kuroiwa

Nascita ed evoluzione

Nel 1853, dopo duecento anni di isolamento, le “navi nere” del commodoro Matthew Perry costrinsero il Giappone ad aprirsi all’Occidente. All’inizio dell’era Meiji (1868-1912), con la fine dello shogunato Tokugawa e la restaurazione dell’imperatore Meiji, l’occidentalizzazione del Giappone fu imposta come politica governativa. Furono chiamati professori occidentali a insegnare nelle università giapponesi ed i giapponesi furono mandati a studiare all’estero, nel tentativo di allineare il Giappone all’Occidente in campo scientifico, letterario, filosofico e artistico. Nell’ambito dell’arte, in particolare, gli antichi stili e tecniche furono accantonati come retaggio di un passato superato, in favore della pittura a olio di stile occidentale, detta Yōga. A questo fenomeno di reazione che rischiava di annientare la millenaria cultura giapponese pose un argine l’impegno culturale di critici d’arte quali Ernest F. Fenollosa (1853-1908) e Okakura Kakuzō, detto anche Okakura Tenshin (1862-1913). Il primo era uno studioso di Harvard chiamato dal governo giapponese ad insegnare filosofia occidentale all’Imperial University di Tōkyō. Nel corso della sua lezione su “La nuova teoria dell’arte” (“The New Theory of Art”), svoltasi presso la Dragon Pond Society nel 1882, Fenollosa sottolineò la necessità di preservare i materiali e le tecniche tradizionali, usando per la prima volta l’espressione “pittura giapponese” che fu tradotta con il termine “Nihonga”. Egli individuò anche i tratti distintivi dell’arte giapponese tradizionale: l’assenza di realismo, la semplicità, la mancanza di chiaroscuro, la presenza di contorni e la limitata gamma cromatica. Okakura Kakuzō, giovane allievo di Fenollosa, influenzò lo sviluppo del Nihonga e contribuì a definire l’estetica giapponese attraverso varie opere che ebbero grande diffusione in Occidente. Kakuzō e Fenollosa, nel 1887, fondarono la Tōkyō Fine Arts School, prima istituzione che distinse formalmente fra Yōga e Nihonga e individuò alcuni caratteri di quest’ultimo. Essi contribuirono anche alla diffusione della conoscenza dell’arte giapponese all’estero in quanto entrambi diressero la sezione di arte orientale del Boston Museum of Fine Arts.

Jun’ichi Hayashi, Takizakura, 2002

Oltre che a Tōkyō, il Nihonga si affermò anche a Kyōto con Takeuchi Seihō (1864-1942) che riprese lo stile della scuola Maruyama fondendolo con influenze occidentali. La mostra annuale di belle arti Bunten, istituita dal governo nel 1907, diede spazio al Nihonga conferendogli un autonomo ambito espositivo insieme all’arte Yōga; essa fu però criticata dagli artisti in quanto troppo conservatrice e politicizzata. Dopo la morte di Okakura Kakuzō, il suo allievo Yokoyama Taikan diventò la figura artistica di riferimento del Nihonga a Tōkyō, come Takeuchi Seihō lo era a Kyōto. Dopo la seconda guerra mondiale, il Nihonga ha conosciuto un momento di crisi perché visto come corrente conservatrice, espressione di quel nazionalismo che aveva condotto alla guerra. Attualmente, tuttavia, tale corrente riscuote successo e attrae ancora molti giovani artisti. In particolare, l’artista Hisashi Tenmyouya (1966- ), nel 2001, ha proposto una nuova nozione artistica denominata “Neo-Nihonga”.

Takeuchi Seihō, Itako all’inizio dell’estate, Yamatane Museum of Art, prima del 1942

Stile e materiali

Il Nihonga abbraccia tutti gli stili tradizionali giapponesi, dalla scuola Kanō a quella Rinpa a quella Maruyama, combinandoli e fondendoli fra loro. Rispetto allo Yamato-e, tuttavia, esso amplia notevolmente la varietà dei temi e dei soggetti. Nella rappresentazione della natura, il Nihonga tende alla semplificazione e alla stilizzazione, eliminando il superfluo e riducendo gli elementi naturali alla loro essenza, spesso valorizzandone l’aspetto dinamico.

In realtà, la linea di confine fra Nihonga e Yōga non è mai stata troppo netta. Essa consiste fondamentalmente nei materiali usati che sono, per il Nihonga, i pigmenti minerali applicati a pennello su carta washi o su seta e, per lo Yōga, l’olio su tela. Tuttavia, alcuni artisti Nihonga hanno adottato il chiaroscuro e la prospettiva occidentali.

Le opere Nihonga si distinguono in dipinti monocromi o sumi-e, ottenuti mediante l’impiego di inchiostro nero di china (sumi) composto da fuliggine e colla di derivazione animale, e dipinti policromi, realizzati utilizzando pigmenti che sono sempre di origine naturale e non di sintesi: minerali, coralli, conchiglie di molluschi, argille (impiegate per rendere le tonalità della terra), insetti, come le larve della cocciniglia, o piante, come la garcinia (usati entrambi per i rossi vibranti), pietre semipreziose quali azzurrite (impiegata per il blu), malachite (verde), cinabro (rosso).

I pigmenti minerali (iwaenogu) sono ridotti in frammenti dalla granulometria più grossolana o più fine: a seconda delle dimensioni dei frammenti, il colore sarà più intenso o più tenue. Affinchè possano aderire al supporto cartaceo o serico, i pigmenti devono essere miscelati con una colla di origine animale (nikawa). Col pennello si stendono più strati successivi di colore; il colore viene successivamente diluito con l’acqua. Questa tecnica, che ricorda quella occidentale dell’acquerello, conferisce ai dipinti Nihonga il caratteristico aspetto a tenui e sfumate gradazioni di colore. Inoltre, la sovrapposizione degli strati di colore crea un effetto di profondità, o “trans-dimensionalità”, anch’esso tipico dei dipinti Nihonga.

Hashimoto Kansetsu, Scimmia, 1940, Adachi Museum of Art

Per i contorni neri, sempre generalmente usati dal Nihonga tranne che nella rappresentazione di piante e uccelli, si usa l’inchiostro sumi. Di fondamentale importanza è anche il gofun, il carbonato di calcio dal caratteristico colore bianco derivato da conchiglie di ostrica ridotte in polvere, ampiamente usato per gli sfondi. Per questi ultimi sono altresì impiegate la foglia d’oro, d’argento e di platino, anche ridotte a striscioline o in frammenti: esse conferiscono ai dipinti un senso di ricchezza e brillantezza.

Infine, quanto ai supporti, è usata la carta giapponese (washi) che, come sappiamo, è ricavata dal gelso, ma anche da bambù, canapa, riso e grano. Frequente è anche il ricorso alla seta (eginu) che è di una qualità diversa da quella utilizzata per confezionare i vestiti. Tali supporti assorbono in misura differente i pigmenti conferendo alle opere Nihonga la loro caratteristica mescolanza morbida di colori.

Uemura Shōen, Composizione di un poema, Yamatane Museum of Art, 1942

Tecniche

Quanto alle tecniche, il Nihonga le mutua dalle scuole tradizionali giapponesi, come Kanō e Rinpa. Una prima tecnica è kouroku, ossia l’uso dei contorni neri per definire gli oggetti. L’impiego dei contorni, tipico dell’arte giapponese tradizionale, non è naturalistico: tale arte non persegue, infatti, la mimesi del reale, ma una rappresentazione creativa di esso. Anche per tale aspetto, il Nihonga si distingue dallo Yōga che aveva invece eliminato i contorni troppo forti al fine di conseguire un realismo di stampo occidentale. Alcuni artisti Nihonga hanno però preferito mokkotsu (“senz’ossa”) o la tecnica derivata mōrōtai (arte “indefinita”) che, facendo a meno dei contorni, modella le figure ricorrendo a delle gradazioni di colore. L’espressione mōrōtai fu originariamente dispregiativa, come quella di “Impressionismo”.

Altri procedimenti sono:

  • tsuketate, un tipo di tecnica mokkotsu nella quale gli oggetti sono definiti non dai contorni, ma dallo spessore, dalla densità e dall’energia delle pennellate;
  • tarashikomi, o “gocciolamento”, che consiste nel far cadere, su uno strato di pittura non ancora asciutto, gocce di pigmento che formano macchie di colore differenti a seconda del peso specifico dei pigmenti;
  • bokashi, ossia l’effetto sfumato ottenuto mediante la diluizione del colore con l’acqua;
  • sumi-nagashi, o tecnica dell’inchiostro fluttuante, mediante la quale la carta viene impressa ponendola sulla superficie di acqua in cui si è fatto precedentemente cadere l’inchiostro, in modo che formasse motivi casuali dall’aspetto marmorizzato;
  • kegaki, la fine tecnica usata per dipingere, uno ad uno, con l’inchiostro sumi e mediante un pennello sottilissimo, i fili che compongono la capigliatura (specialmente intorno all’attaccatura dei capelli) o il pelo degli animali, ottenendo un effetto visivo di morbidezza;
  • la frequente rappresentazione di nubi e nebbie, tipici del clima umido del Giappone, sia nei paesaggi che rappresentano montagne e fiumi (sansui-ga), per ottenere effetti prospettici o sottolineare l’altezza delle montagne, sia per segnare passaggi tematici o simboleggiare il trascorrere del tempo.

A differenza dei dipinti Yōga che, secondo l’uso occidentale, sono esposti coperti da un vetro e incorniciati, le opere Nihonga, secondo la più antica tradizione giapponese, sono montate su rotolo da appendere alla parete (kakemono) o da srotolare orizzontalmente per la lettura (emakimono); possono altresì essere montate su porte scorrevoli (fusuma) o paraventi (byōbu). Attualmente si usano dei pannelli di compensato che consentono di incorniciare il dipinto senza però coprirlo con il vetro.

Yokoyama Taikan, Le sacre cime di Chichibu all’alba di primavera, 1928

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