La mostra di Milano vista da Arteingiappone

 

Tra le numerose iniziative per festeggiare il centocinquantesimo anniversario del Trattato di amicizia fra Italia e Giappone del 1866, senz’altro da non perdere è  la mostra in corso di svolgimento, fino al prossimo gennaio, presso il Palazzo reale di Milano. L’esposizione, curata dalla professoressa Rossella Menegazzo, raccoglie oltre duecento stampe su matrici di legno e libri illustrati dei grandi artisti Hokusai, Hiroshige e Utamaro (http://www.hokusaimilano.it/). Ad esempio, potremo ammirare dal vivo la Grande onda di Hokusai e la serie delle Trentasei vedute del monte Fuji grazie alla collaborazione con il Museum of Art di Honolulu da cui le stampe provengono.

La mostra di Milano può essere l’occasione per mettere in rilievo i tratti caratteristici dell’arte giapponese ispirati da una cultura e da una visione del mondo diverse rispetto a quelle occidentali. La rappresentazione dello spazio nell’arte giapponese è ricollegabile al principio estetico di asimmetria descritto dal critico d’arte Okakura Kakuzō nel Libro del tè. Il bello, secondo le filosofie orientali, non è dato tanto dalla perfezione in sé quanto dalla sua ricerca. Secondo il taoismo la vita è sviluppo, dinamismo: la forma deve essere asimmetrica, incompleta affinchè la simmetria, la completezza possano essere create nella mente di chi la contempla. Una forma già simmetrica è compiuta, statica, non suggerisce niente e non stimola alcun processo mentale creativo e dinamico in chi la osserva, mentre quella asimmetrica, imperfetta, incompiuta spinge la mente umana a compiere un processo che attraverso l’immaginazione crea la forma perfetta. L’inquadratura di molte opere dunque è spesso asimmetrica e parziale, come nella stampa Il santuario Honganji di Asakusa a Edo (fig. 1) di Hokusai in cui del soggetto, costituito dal tempio, vediamo solo parte del tetto nell’angolo destro del dipinto.

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Fig. 1

Al principio di asimmetria e incompiutezza si collega anche quello di suggestione. Molto spazio, nell’arte giapponese, è lasciato al non detto: l’opera d’arte si limita a suggerire qualcosa allo spirito, il resto è lasciato all’immaginazione di chi guarda perché, come si è detto, il bello, secondo le filosofie orientali, scaturisce da un processo dinamico di ricerca. Un maestro nell’arte della suggestione è Hiroshige; ne abbiamo un saggio nella stampa Fukuroi. I celebri aquiloni della provincia di Tôtômi (fig. 2). In essa la prospettiva a volo d’uccello, tipica dell’arte giapponese, consente all’occhio di vagare liberamente, come librandosi dall’alto su ali immaginarie, sui campi di riso e nel cielo sovrastante striato di rosso e costellato di aquiloni che, misurando lo spazio con i loro fili tesi diagonalmente, conferiscono all’immagine un senso di profondità. L’opera di Hiroshige è costellata di suggestioni che alimentano la fantasia di chi osserva lasciando che sia quest’ultimo a completare l’immagine. Non sappiamo, ma la mente è libera di immaginare, chi stia facendo volare gli aquiloni. In questo gioco di suggestione l’osservatore può addirittura entrare nell’immagine fantasticando di essere egli stesso a farli volare. L’espediente della suggestione è largamente usato dal cinema nel quale spesso inquadrature parziali di dettagli rimandano all’immagine intera lasciando però che sia lo spettatore ad immaginarsela un attimo prima che essa sia effettivamente ripresa. Non è un caso che la tecnica di Hiroshige in alcune sue stampe sia stata definita “protofilmica”.

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Fig. 2

Un altro motivo caratterizzante l’arte e la cultura giapponese è costituito dall’attenzione alla natura in tutte le sue manifestazioni: l’alternarsi delle stagioni con i connessi mutamenti di temperatura e durata del giorno, il cambiamento nei colori, le piogge e le nevi, le fioriture e sfioriture. Tutto segue i periodi della natura: i riti di hanami (contemplazione dei fiori di ciliegio) in primavera e tsukimi (contemplazione della luna) in autunno, le feste, l’ikebana, la cerimonia del tè, le fantasie dei kimono, persino gli ornamenti delle pettinature femminili. Anche nell’arte figurativa, così come nella letteratura e nella poesia, i soggetti e i motivi ricorrenti sono quasi sempre connessi con le stagioni: un tòpos della pittura è la rappresentazione delle quattro stagioni, mentre nell’haiku il riferimento alla stagione è una clausola di stile. Particolarmente importante è il trapasso da una stagione all’altra che ha un significato simbolico di natura religiosa ed è legato al concetto buddista di impermanenza, cioè della natura transeunte di tutte le cose. L’equinozio di primavera e quello d’autunno, che individuano i due momenti di passaggio alla stagione estiva e a quella invernale, sono paragonati al transito da una sponda all’altra di un fiume e, sul piano religioso, sono la metafora del passaggio da una condizione di torpore, immobilità, ignoranza al risveglio dell’illuminazione. I nomi stessi dei periodi dell’anno in cui cadono l’equinozio di primavera e quello d’autunno, rispettivamente Haru no HiganAki no Higan, contengono la parola Higan che significa “altra sponda”. All’interno di questa poetica delle stagioni si colloca la particolare sensibilità per le manifestazioni atmosferiche, come il vento, rappresentato ad esempio nell’opera di Hokusai Ejiri nella provincia di Suruga (fig. 3), o la pioggia e la neve. 

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Fig. 3

Anche la pioggia rientra fra i segni stagionali ed in particolare caratterizza, oltre all’autunno, il periodo che va dal mese di giugno fino ai primi di luglio che costituisce, appunto, la stagione delle piogge in Giappone. Mentre dunque nell’arte occidentale la pioggia è pressoché assente perché, mancando una simile sensibilità all’elemento stagionale, si ritiene che la sua rappresentazione offuschi e nasconda l’immagine, nell’arte giapponese essa assume un rilievo autonomo ed anziché nascondere esalta il paesaggio immergendolo nella sua realtà stagionale ed atmosferica. Dal punto di vista giapponese infatti un paesaggio privo di variazioni atmosferiche non sarebbe naturale. Si vedano ad esempio l’opera di Hokusai Il ponte Kintai nella provincia di Suō (fig. 4) e quella di Hiroshige Fujieda (fig. 5). Nelle due stampe la pioggia, obliqua, scende da scure nubi realizzate con la tecnica del bokashi che consiste nel creare sfumature di colore dall’effetto tridimensionale, come nella pittura. Si noti inoltre che l’incisione di fitte linee perfettamente dritte nel legno richiede una particolare perizia. Dunque, nell’ambito dell’ukiyo-e, la rappresentazione della pioggia, oltre ad avere una valenza poetica, è anche una prova di notevole abilità tecnica.

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Fig. 4

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Fig. 5

La magia della neve è resa particolarmente da Hiroshige, ad esempio nell’opera Mariko (fig. 6). In una notte d’inverno sul villaggio assopito scende la neve. La candida coltre si stende su ogni figura, d’alberi, case o montagne, coprendoli completamente e rendendo tutto cromaticamente omogeneo (non è un caso che la neve costituisca, nello zen, un simbolo del vuoto). Privato del colore, o meglio immerso nel bicolore bianco-grigio a contrasto, il paesaggio naturale è ridotto a pura linea. Con tratto rapido l’autore cattura i profili degli alberi, dei tetti e delle rocce. Le strutture delle case, i rami e le chiome, i crinali dei monti sono stilizzati. Attraverso la rappresentazione di un paesaggio innevato dai colori neutri egli trasmette un senso di calma uniformità da cui nulla emerge. Ѐ come se dal dipinto potesse promanare il silenzio delle cose.

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(Fig. 6)

La sensibilità giapponese per la natura assume in Hokusai caratteri del tutto originali: più di qualsiasi altro, egli riesce infatti a cogliere uno spirito nella natura e ad esprimerne la vitalità. Esemplare è La grande onda di Kanagawa (fig. 7) che tanto ha influenzato l’arte occidentale. In essa, dall’osservazione del fenomeno fisico, l’artista trae l’elemento estetico: la linea che va dal ventre dell’onda fino alla cresta inscrive in un semicerchio il cono del monte Fuji. La perfezione geometrica della natura è essa stessa bellezza, è in sé arte. L’incanto della forma è esaltato dallo splendore del colore: le due diverse tonalità di blu dell’onda si alternano a fasce e vanno da una sfumatura più profonda a una gradazione più brillante; per rendere più nitidi i contorni l’autore ha usato l’indaco. Tuttavia nella natura l’artista non vede solo la perfezione della forma e la purezza del colore, ma coglie uno spirito. E’ possibile parlare di visione antropomorfica: l’onda appare animata da volontà propria, dall’intento di gareggiare in altezza con la montagna sullo sfondo, contrapponendosi alla maestosa staticità di quest’ultima con il suo potente dinamismo. La schiuma sulla cresta ha una forma a uncini che sembrano artigli pronti a ghermire le minuscole figure umane appiattite sulle barche. La forza distruttiva del mare si contrappone alla figura della montagna anche simbolicamente: se la prima è emblematica della fragilità dell’esistenza umana di fronte alla natura, la seconda rappresenta invece l’immortalità. Questi due opposti, la caducità dell’esistenza e l’eternità, pare abbiano esercitato una grande influenza sulla sensibilità dell’artista che si è esplicata nella rappresentazione di numerose vedute del monte Fuji.

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(Fig. 7)

Come nella Grande onda anche nelle opere tratte dalla serie Cascate famose in varie province, raffiguranti le due cascate Kirifuri e di Yoshino (figg. 8 e 9), è presente il tema dell’acqua, contemplata da Hokusai come potenza della natura. La forza dell’elemento è resa dagli spruzzi in forma di leggiadre perle d’acqua, simili a quelle formate dall’Onda. La rappresentazione della natura appare anche qui antropomorfica, come se la cascata fosse la mano di un gigante o le mille dita di una divinità delle montagne. Lo stile è improntato ad un’evidente stilizzazione che riduce a forma pura il soggetto attraverso l’uso di un linearismo elegante paragonabile a quello del Liberty, ma più vibrante, tale da infondere negli elementi naturali quasi un principio di vita, un’anima. L’acqua delle cascate, pur non avendo la forza distruttiva dell’onda oceanica, ha una potenza maestosa anche nelle dimensioni, sottolineate dal confronto con le figure umane che appaiono minute. Il rapporto dell’uomo con la natura non è di dominio, come nella cultura occidentale, ma può essere o di mera soggezione o di contemplazione, come quella dei tre pellegrini di spalle in primo piano che guardano in alto verso la Cascata Kirifuri.

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Fig. 8                                                                  Fig. 9

Il senso della natura, oltre che nei paesaggi, si esprime nei kachōga che danno una rappresentazione dettagliata e attenta dei fiori e degli animali. L’osservazione della natura, apparentemente simile a quella di un naturalista, è però diversissima nello spirito che la pervade. Nell’impostazione scientifica studiare la natura, classificarla, misurarla serve ad una conoscenza che è presupposto di una utilizzazione e di un dominio. Tale atteggiamento è reso possibile dal fatto che, nella cultura occidentale, la divinità è trascendente: ha creato la natura, ma è al di fuori di essa. Nella cultura orientale invece, nella quale la divinità è immanente, una conoscenza della natura finalizzata al suo utilizzo è inconcepibile e sarebbe illusoria. L’attenta osservazione di ogni più piccolo fiore o foglia è invece animata dalla consapevolezza che in ciascuno di essi c’è il divino, poiché nello shintoismo il divino è in ogni Kami, in ogni aspetto della natura. Ogni forma e sembianza in essa desta perciò meraviglia e senso di attenzione, rispetto e contemplazione. L’esempio forse più poetico dei kachōga in mostra è l’opera di Hokusai Cardellino e ciliegio piangente (fig. 10). La rappresentazione è ridotta al suo elemento essenziale, la vivida fioritura espressione del rigoglio e della rinascita primaverili. La forza della raffigurazione pittorica è potenziata dall’assenza, dal vuoto. Quest’ultimo, nello zen come nell’arte giapponese, è più importante del pieno perché in esso possono liberamente fluire le impressioni poetiche. Come aveva osservato Van Gogh, i pittori giapponesi “vivono nella natura come se fossero essi stessi dei fiori”. Così, senza disperdersi in dettagli secondari, il pittore può meglio immedesimarsi nell’essenziale, i fiori al loro schiudersi: egli rappresenta non tanto i fiori stessi, quanto l’energia in essi contenuta, cosicché tutto si riduce al vuoto, alla pura energia. La suggestione è potenziata dall’adozione della prospettiva dal basso che fa sì che il cardellino sia visto di scorcio. Inusuale per un osservatore occidentale, questo punto di vista è quello che si avrebbe immaginando di essere sdraiati sotto l’albero a guardare il cielo, evocato dallo sfondo blu.

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Fig. 10

Nell’ukiyo-e si riscontra un’oscillazione bipolare fra rappresentazione dell’uomo e della natura. Con Hokusai e Hiroshige l’attenzione per la figura umana fu ridimensionata in favore dell’interesse per il paesaggio e per la natura, vista come sacra e predominante rispetto all’uomo. Tuttavia, complessivamente, da una considerazione dei generi, emerge come la corrente ukiyo-e fosse anche espressione di un rinnovato interesse per l’uomo e per la rappresentazione della figura umana. Nonostante i soggetti fossero perlopiù geishe o attori di kabuki, è comunque significativa questa tendenza che produsse, con lo studio delle fisionomie e dei caratteri che da esse emergevano, le basi di quello che definiamo ritratto, ad esempio nelle opere di Utamaro. Nel ritrarre figure femminili l’arte giapponese prescinde volutamente dagli effetti di luce e ombra e dalla plastica volumetrica per ridurre tutto all’essenzialità della linea. La forma è ridotta a segno grafico, un ovale per il viso e una curva elegante per il corpo: dunque nella rappresentazione della figura umana non vi è imitazione della natura, ma astrazione. Ciò corrisponde anche al canone estetico di “ike” che, imperniato sull’eleganza della semplicità, predilige alla rappresentazione di una corporeità formosa, matronale una bellezza longilinea e sofisticata, come si vede nell’opera Passeggiata notturna sotto la neve (fig. 11).

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Fig. 11

In Utamaro tuttavia c’è una tensione fra idealizzazione e individualizzazione che si esprime nella leggerissima diversificazione dei lineamenti, estremamente stilizzati. Si può dunque parlare di ritratto, anzi, di ritratto “cronistico”, fotografico, attento alla resa dei particolari, ad esempio alle sontuose pettinature del tipo yoko-hyogo che Utamaro evidenzia con l’intensa colorazione nera in contrasto con lo sfondo. L’autore ha infatti ideato la tecnica, molto adottata nell’ukiyo-e, che consiste nell’utilizzare polvere di mica per dare luminosità allo sfondo (kira-e), creando un contrasto con l’immagine in primo piano. Utamaro ha infine dato rilievo alle figure femminili adottando il genere dell’ōkubi-e, cioè del “ritratto ampio” nel quale si rappresenta soltanto il busto del soggetto raffigurato, conferendogli monumentalità, come si vede nell’opera Ritratto di beltà (fig. 12).

Fig. 12

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